• Tamegroute la città della ceramica verde

Tamegroute – La Città della Ceramica Verde

Tamegroute si trova ai margini della valle del Drâa, in un territorio dove il paesaggio non concede molto. La terra è secca, compatta, spesso scura. Le costruzioni seguono questa condizione: basse, dense, legate al suolo più che al disegno. Qui non esiste una separazione netta tra ambiente naturale e spazio abitato, perché entrambi sono fatti della stessa materia.

Il villaggio è conosciuto per la sua ceramica, ma prima ancora per il tipo di terra che rende possibile quella ceramica. Argille locali, ricche di minerali, lavorate senza cercare uniformità cromatica. Le superfici risultano irregolari, talvolta imprevedibili, segnate dal fuoco più che controllate da esso. È una produzione che accetta l’errore come parte del processo.

Origine e Storia di Tamegroute

Tamegroute nasce come insediamento ai margini delle grandi direttrici del sud marocchino, lungo la valle del Drâa, in un territorio dove l’acqua è rara e ogni scelta costruttiva deve tenerne conto. La sua origine non è legata a un centro di potere politico o commerciale, ma a un luogo di studio e di raccolta: la zaouia di Sidi Mohammed Ben Nasser, fondata nel XVII secolo. Attorno a questa istituzione religiosa e culturale si sviluppa gradualmente il villaggio.

La zaouia non era soltanto un luogo di preghiera. Era anche scuola, biblioteca, punto di riferimento sociale. Attorno ad essa si è formato un tessuto abitativo fatto di costruzioni semplici, pensate per durare e per adattarsi al clima e alle risorse disponibili. In questo contesto, il sapere non si trasmetteva per specializzazione, ma per prossimità: vivere, lavorare e imparare erano parti dello stesso processo.

La piazza principale di Tamegroute

La Piazza Principale di Tamegroute

La posizione di Tamegroute, lontana dalle grandi città imperiali, ha contribuito a mantenere una certa autonomia nelle pratiche quotidiane. Le tecniche costruttive, così come quelle legate alla lavorazione della terra, non sono state standardizzate né influenzate da mode esterne. Si sono sviluppate per necessità, in risposta a un ambiente arido e a materiali limitati, ma affidabili.

La storia di Tamegroute non è segnata da grandi espansioni o trasformazioni improvvise. È una storia di continuità lenta, di adattamento costante, in cui il sapere viene custodito più che innovato. Ed è proprio questa continuità, fragile e resistente allo stesso tempo, a rendere il luogo riconoscibile ancora oggi.

La Ceramica Verde: Argilla, Smalto, Forno

A Tamegroute la ceramica non è “una linea di prodotti”. È una pratica locale, concentrata in poche famiglie e in pochi luoghi precisi del villaggio. In diverse descrizioni ricorre la stessa immagine: forni tradizionali affiancati alle botteghe, spesso nella zona centrale, con una produzione che resta familiare e organizzata per compiti.  Non è un dettaglio folcloristico: spiega perché i metodi cambiano poco e perché certe scelte tecniche, qui, vengono conservate.

Il processo parte dall’argilla della valle del Drâa e dei dintorni. Viene raccolta, ripulita, lasciata riposare e poi lavorata fino a ottenere una pasta stabile. È un passaggio lungo, più importante di quanto sembri: se la terra non è “giusta”, la cottura la tradisce. Alcune fonti descrivono la lavorazione in laboratori semplici, con ruote spesso essenziali (talvolta collocate in una fossa per lavorare seduti più in basso), e un’impostazione che privilegia controllo e ripetizione più che velocità.

Esempi delle Ceramiche verdi a Tamegroute

Esempi delle Ceramiche verdi a Tamegroute

Le forme che ne escono sono volutamente dirette: piatti, ciotole, tajine, recipienti. Non è una ceramica che nasce per essere perfetta. Anzi, la differenza tra un pezzo e l’altro è parte del linguaggio. Le pareti possono avere micro-ondulazioni, i bordi non sono sempre identici, e il corpo dell’oggetto conserva spesso una certa ruvidità. Molto dipende anche dall’asciugatura: in un contesto caldo e secco come questo, i tempi vanno gestiti con attenzione, perché il sole asciuga in fretta e il rischio di crepe è reale.

Poi arriva la parte che rende Tamegroute immediatamente riconoscibile: lo smalto verde. Le descrizioni più attendibili concordano su un punto: il verde è legato a una miscela minerale dove l’ossido di rame ha un ruolo centrale; spesso vengono citati anche altri ossidi (per esempio manganese) e aggiunte che variano da famiglia a famiglia. Le ricette, in pratica, non sono un disciplinare pubblico. Cambiano, e questo spiega perché il verde non sia mai “uno” soltanto: va dall’oliva scuro al verde più spento, e a volte tende a toni terrosi. 

Sulla cottura vale la stessa regola: esiste un impianto comune, ma non un’unica procedura rigida. Molte fonti parlano di forni tradizionali a cupola (o comunque chiusi), alimentati con combustibili locali (legna, foglie di palma secche e materiale vegetale disponibile) e con temperature che vengono indicate spesso tra circa 1000 e 1100 °C.  L’atmosfera del forno e la posizione dei pezzi contano quasi quanto la ricetta dello smalto: anche per questo la superficie risulta spesso “viva”, con colature, addensamenti, aree più opache o più lucide. 

Un punto interessante, e utile da dire senza forzare, è che non tutte le botteghe descrivono la stessa sequenza di cottura. Alcune raccontano un processo in due fasi (prima cottura, poi smaltatura e seconda cottura), altre insistono su una cottura unica con smalto applicato prima del forno. In un contesto familiare e non industriale, entrambe le cose possono coesistere: l’importante è non presentare Tamegroute come una fabbrica con un solo protocollo. 

L’Artigianato del Marocco Profondo

Guardando Tamegroute insieme a Marrakech, Fès, Safi ed Essaouira, emerge un filo continuo che non riguarda lo stile, ma il modo di lavorare la materia. In ognuno di questi luoghi l’artigianato non nasce come espressione estetica autonoma, ma come risposta concreta a un contesto preciso: clima, risorse, uso quotidiano. Le differenze sono evidenti, ma il principio è lo stesso.

La ceramica verde di Tamegroute, come il Tadelakt di Marrakech o lo Zellige di Fès, non cerca la perfezione formale. Accetta il limite, lo integra, lo rende parte del risultato. È un sapere che non punta a cancellare l’imprevisto, ma a governarlo. In questo senso l’artigianato marocchino non è mai pura tecnica, né semplice tradizione: è una forma di equilibrio tra controllo e adattamento.